Ieri come oggi il quartiere milanese di Dérgano, zona posta tra viale Jenner, piazzale Maciachini, Bovisa e la ferrovia, recentemente oggetto di una vasta operazione di rigenerazione urbana, si distingue per progetti all’insegna della cura e iniziative di solidarietà. Avviata negli scorsi giorni, l’operazione #cestesospese permette di venire incontro, rispettando le misure di distanziamento sociale, alle necessità economiche di tante famiglie e anziani del quartiere. Da pochi giorni alle finestre di alcuni condomini sono appese delle ceste con all’interno prodotti alimentari. “ Chi può metta, chi non può prenda” è il messaggio che invita tutti a partecipare e, chi ha bisogno, ad accettare l’offerta.
Ma la storia del quartiere è strettamente legata a periodi di epidemia e alla necessità di cure e sostegno. Nascosto dietro a una facciata di un insolito stile liberty, fra via Guerzoni e via Livigno, nel cuore del quartiere, si trova in stato di completo abbandono l’ultimo lazzaretto di Milano. Il “Dergagnino”, come veniva chiamato e come minuziosamente ricostruito dal sito “Storie dimenticate”, “fu inaugurato il 13 ottobre del 1896 ed intitolato ad Agostino Bassi, naturalista, botanico e pioniere della moderna batteriologia. Il primo paziente fu un bambino di 4 anni colpito da difterite; l’ultimo un uomo di 45 ammalato di vaiolo ricoverato il 30 maggio del 1979. In poco più di 80 anni di vita, la struttura accolse e curò oltre 150 mila pazienti affetti da malattie dai nomi inquietanti: vaiolo, colera, tifo e meningite, facendo tuttavia registrare solo 6 mila decessi, un numero che secondo gli esperti testimonia la bontà delle cure e dei trattamenti impartiti al suo interno”.
I LAZZARETI DI MILANO
Nella sua storia, Milano contò tre lazzaretti. La necessità di avere un luogo lontano dal centro abitato e che fosse a favore di vento – essendo il capoluogo lombardo prevalentemente esposto alla ventilazione da ovest – fu alla base, già nel 1468, di un primo progetto architettonico presso l’Ospedale Maggiore. Più che di un edificio si trattava di una vera e propria cittadella dei malati, isolati in duecento casette da edificare fuori dalle mura della città. Ma il progetto, rimase sulla carta. Fu solo nel 1488, alle prime avvisaglie di una nuova epidemia, che vennero accolte le richieste del Consilium medicorum per avviare la costruzione di un lazzaretto, fuori città verso oriente, “in loco Sancti Gregorii”, oltre al Redefossi. E’ il Lazzaretto descritto dal Manzoni.
Secondo quanto si legge tra i documenti dell’Archivio di Stato di Piacenza, “la costruzione del Lazzaretto fu provvidenziale a fronte delle tre grandi epidemie che colpirono Milano nel 1524 (peste di Carlo V), nel 1576 (peste di San Carlo) e nel 1629 (peste “manufatta”, ma oggi più comunemente detta “peste del Manzoni o dei Promessi sposi”). In tutti tre i casi, anzi, l’enorme recinto di Porta Orientale non fu sufficiente ad accogliere tutti gli ammalati e si dovette ricorrere ad altri accampamenti di fortuna, specialmente al Gentilino, fuori di Porta Ticinese, il terzo luogo dedicato alla cura degli appestati.
Nel 1524, sull’area occupata attualmente dall’Oratorio del Gentilino, esisteva un cimitero detto “ il Foppone” destinato a raccogliere i morti della peste. Accanto al Foppone si costruisce anche un Lazzaretto per la cura degli appestati, affidato poi ai primi discepoli di S. Camillo.
Dopo la peste del 1629 il Lazzaretto di San Gregorio fu adibito a vari usi, spesso militari, mentre il prato era affittato dall’Ospedale Maggiore per orti o pascolo. Nel 1844 le stanze erano diventate abitazioni e la chiesa serviva da fienile. Nel 1861 un viadotto ferroviario lo tagliò in due e finalmente nel 1881 lo acquistò la Banca di Credito Italiano per lire 1.803.690. Demolito tra il 1882 e il 1890, ne resta un breve tratto in via S.Gregorio e la chiesa con il portico murato, che venne riaperta al culto con il titolo di San Carlo nel 1884, dopo essere stata acquistata grazie a una pubblica sottoscrizione dal parroco di S. Francesca Romana.
IL NOME
Sull'origine del nome lazzaretto ci sono due ipotesi: la prima si rifà a Lazzaro, protagonista del racconto evangelico che vide Gesù ridargli la vita dopo quattro giorni di sepoltura.
La seconda è legata all’isola della laguna di Venezia, dove sorgeva la chiesa di Santa Maria di Nazareth , adibita nei primi del 1400 a ricovero di persone e merci provenienti da paesi infetti. Può essere che successivi lapsus fonetici abbiano fatto sì che "Nazareth" diventasse nazaretto e infine lazzaretto. Nome che, da qual momento, venne dato alle strutture destinate a evitare la diffusione delle epidemie.
Ulteriore curiosità: i due uomini che più contribuirono alla realizzazione del lazzaretto milanese, il filantropo e notaio milanese Cairati, che ne fu il finanziatore, e l’architetto Palazzi, il costruttore, si chiamavano tutti e due Lazzaro. Omen nomen, il nome è un presagio.
L’OGGI, UN ESEMPIO DI RIPARTENZA
La vita del quartiere ha tratto senz’altro giovamento delle importanti novità urbanistiche che hanno interessato la zona negli ultimi dieci anni. Sette anni fa la creazione del Maciachini Center, con la ventata di nuovi edifici per uffici, poi la Giax Tower, ultimata nel 2014, ma anche la conclusione dei lavori per il Teatro del Buratto di Maciachini, dedicato all’infanzia. Infine, l'esperimento della piazza pedonalizzata, che ha ricreato un luogo per la socialità del quartiere. La piazza principale, era già il centro del piccolo Comune indipendente di Dèrgano , che inizialmente fu annesso nel 1868 al Comune di Affori, diventandone una frazione, e nel 1923 inglobato nella città di Milano, assieme agli altri paesi confinanti la grande città. In questa piazza si trovavano il Municipio e la chiesetta.
Dopo essere stata per anni considerata periferia della città con problemi di sicurezza sociale, oggi, grazie alla fervente attività dei suoi abitanti, si presenta come uno dei quartieri più prolifici in materia di iniziative rivolte soprattutto alla condivisione e al benessere sociale. Certamente, anche qui come in altre aree metropolitane, i grandi cambiamenti sociali e urbanistici hanno spazzato via le antiche peculiarità della zona come, ad esempio, la moltitudine di taverne e osterie che la caratterizzavano, ma, a differenza che altrove, qui qualcosa è rimasto: l’identità forte di un quartiere dove i residenti si prendono davvero cura del territorio che abitano. Tanto che, in quest’area, si registra uno dei record per numero di Comitati di Zona e Associazioni attive per il recupero delle aree lasciate all’abbandono e al degrado. Un bel segnale di solidarietà in stile ambrosiano con cui affrontare una difficilissima Fase 2.