Per la prima volta, abbiamo vissuto una Pasqua con le chiese chiuse. Tutte le celebrazioni della Settimana santa sono state annullate o al massimo, celebrate in solitudine dagli officianti e trasmesse in streaming per consentire che i fedeli potessero partecipare almeno via computer o attraverso qualche diretta televisiva. Un caso – è stato scritto più volte – senza precedenti. Facendo più di un passo indietro nella storia, qualche caso se non analogo, almeno similare, lo troviamo.
LA BOLLETTA, UN’AUTOCERTIFICAZIONE ANTELITTERAM – Correva l’anno 1576, Milano veniva colpita dalla peste. Il Governatore della città, Antonio de Guzman y Zuñiga, aveva introdotto rigide limitazioni ai pellegrinaggi, disponendo, ricorda Marco Rapetti Arrigoni sul suo blog breviarium.eu, ripreso anche dalle pagine di vaticannews.va – che “l’ingresso in città fosse consentito solo a piccoli gruppi di una dozzina di persone in possesso della ‘bolletta’, un documento, rilasciato dalle autorità sanitarie del territorio di provenienza, che attestasse l’assenza di sintomi riconducibili al morbo pestilenziale”.
SAN CARLO BORROMEO – Il cardinale Carlo Borromeo, santo arcivescovo della diocesi ambrosiana – racconta ancora Rapetti Arrigoni – esortava i sacerdoti a soccorrere i malati, e lui fece lo stesso. Borromeo, conoscendo i rischi di contagio “per non divenire vettore del morbo, cominciò a conferire con i suoi interlocutori tenendoli a distanza, a cambiare spessissimo ed a lavare in acqua bollente i suoi abiti, a purificare ogni cosa che toccava con il fuoco e con una spugna imbevuta d’aceto che portava sempre con sé; nelle sue visite per Milano teneva le monete per le elemosine all’interno di orci colmi d’aceto”.
LA QUARANTENA DELL’ARCIVESCOVO – Per chiedere a Dio di fermare l’epidemia, l’arcivescovo di Milano aveva indetto quattro processioni, “alle quali avrebbero potuto prendere parte solo gli uomini adulti, divisi in due file di una sola persona e distanti l’una dall’altra circa tre metri, vietando la partecipazione degli infetti e dei sospetti di contagio. Il Borromeo guidò, a piedi scalzi e con una corda al collo, la prima processione dal Duomo fino alla Basilica di Sant’Ambrogio”. A Borromeo si deve anche la proposta di una quarantena generale per la quale tutti i cittadini dovevano per quaranta giorni chiudersi in casa. “Il Cardinale – si legge in un antico resoconto biografico sul santo arcivescovo – teneva che niuna cosa, che potesse essere di giovamento a gli infermi e a’ poveri, fosse fuori dell’officio suo”. Il 15 ottobre 1576 il Tribunale di Provvisione, accogliendo la proposta di Borromeo, aveva decretato la quarantena generale per tutti gli abitanti di Milano. Il 18 ottobre San Carlo aveva emanato un editto simile per il clero secolare e regolare, ordinando “alle persone Ecclesiastiche che similmente si contenessero in casa” ed esentando dall’osservanza del precetto di “stare in casa ritirato” solo i sacerdoti ed i religiosi destinati all’assistenza spirituale e materiale della popolazione.
LA FINESTRA, LO STREAMING DEL PASSATO – I milanesi in quarantena non potevano andare in chiesa a pregare né partecipare alla messa. San Carlo fece in modo che negli incroci della città ci fossero croci e altari presso cui celebrare messe alle quali era possibile partecipare da lontano, affacciandosi alle finestre. Dalla metà di dicembre del 1576 la propagazione dell’epidemia parve rallentare. Nonostante il miglioramento della situazione le autorità avevano deciso di prolungare la quarantena, per evitare far ripartire i contagi, e questo prolungamento dell’isolamento era avvenuto con il consenso del cardinale, sebbene san Carlo fosse dispiaciuto perché “il popolo non poté andare nelle Chiese, neanche nelle solennità del Santo Natale”.
CON PAPA ALESSANDRO STOP ALLE PROCESSIONI – Circa un secolo più tardi, durante la peste del 1656, anche Papa Alessandro VII si mosse con grande determinazione per contenere il contagio che avrebbe portato a un milione di morti in tutta la penisola. In un resoconto storico riportato nel volume “Descrizione del contagio che da Napoli si comunicò a Roma nell’anno 1656” (Roma, 1837), si legge: “Né solamente furon dismesse le comunanze […] civili, ma non meno le sacre, cioè le pontificie cappelle, le consuete processioni, le pie congreghe, la solennità degli uffizii nelle chiese, chiudendole in que’ giorni ch’eran per loro segnalatamente festivi, e però attrattivi di molto popolo”. Il Papa “promulgò un giubileo universale, non imponendo già (secondo il costume) o processioni, o visitazioni di poche determinate basiliche, affine di non accumular quivi gente: né iterati digiuni, per non disporre i corpi al malore col men salutifero pasto…”. Inoltre, la Congregazione di Sanità, su mandato del Pontefice, intervenne anche a regolamentare la vita religiosa della città introducendo notevoli limitazioni. Fu sospesa l’adorazione eucaristica comunitaria nel contesto della celebrazione delle Quarantore e vennero vietate le processioni e le prediche di piazza. Feste e cerimonie furono officiate a porte chiuse e le autorità ecclesiastiche arrivarono a privilegiare forme private e personali di devozione e preghiera.
LA MISTERIOSA SPAGNOLA – Un’altra devastante pandemia, che obbligò a misure di contenimento fu la cosiddetta influenza spagnola, arrivata in realtà dall’America ma battezzata con il nome del Paese iberico perché lì vennero fatti studi particolarmente approfonditi (anche se bisogna ricordare che il virus influenzale fu isolato solo 1934). L’Italia fu particolarmente colpita, si stimano circa 600mila morti all’agosto 1918 al marzo 1919. Allora, come oggi, la regione più colpita fu la Lombardia, con circa 36.653 vittime, seguita dalla Sicilia che ne ebbe un po’ meno di 30mila. La concomitanza con la guerra, spinse la censura a ridimensionare (o meglio, nascondere) le notizie sull’epidemia, ma soprattutto in trincea, le autorità militari furono costrette ad applicare protocolli speciali per cercare di fermare il diffondersi della malattia. Nel volume “La sanità militare nelle retrovie del fronte dopo Caporetto, strutture sanitarie e storie di persone nei comuni di Silea, Casier e Casale sul Sile”, curato dal prof. Paolo Criveller, si legge: “Da un giorno all’altro cambia completamente la situazione: negli ospedali militari non si muore più per le ferite, ma per l’influenza spagnola. E’ uno stillicidio quotidiano. Le autorità prendono misure drastiche, compresa la sospensione dei riti in chiesa per le esequie funebri e l’accompagnamento delle salme in cimitero con il concorso di popolo. Il rito si limita alla preghiera e alla benedizione del defunto in cimitero, con poche persone”.
NEL CREMONESE CI CELEBRA MESSA, MA NON CI VA NESSUNO – Tornando in Lombardia, un ricordo della “febbre” spagnola, ci è stato recentemente offerto dal quotidiano cremonaoggi.it, che in un articolo sui fatti del 1918 ha riportato la testimonianza di un prete di campagna, don Gioachino Bonvini, parroco di Ognissanti che nel suo diario raccontava che essendo le canterine malati e il maestro d’organo malato: “Venute le 10 vado fuori con la messa, 7 o 8 donne soltanto. Cosa doveva fare? Ho dovuto dir messa bassa”.