“A Carnevale, ogni scherzo vale”. 4 curiosità sulla tradizione meneghina

Il Carnevale ambrosiano tra storia, leggende, personaggi e maschere tipiche, dolci e… coriandoli

A Carnevale ogni scherzo vale”, non era nella Milano di un tempo una frase da prendersi alla leggera. La festa non era affatto un “gioco da ragazzi”, ma il modo con cui il popolo esprimeva in maniera irriverente e irrazionale la sua forza sovversiva, lo stravolgimento delle classi sociali, la sua mentalità dissacrante, magica e ancora intrisa di paganesimo.

Affondando le sue origini nei riti che nel periodo invernale accompagnavano la natura verso il risveglio – dai festeggiamenti degli Egizi in onore della Dea Iside alle “Grandi Dionisiache” greche in onore del Dio Bacco, fino ai Saturnali dell’epoca romana, in cui venivano sospese le leggi in vigore – il periodo della fine inverno veniva festeggiato con un rovesciamento delle norme e delle convezioni. Fulcro delle feste, sia popolari che della nobiltà, era il mascherarsi, il tratto più caratteristico del Carnevale che dura tutt’oggi. E di questo rito collettivo Milano ne fu la capitale (im)morale, tanto che a metà del 1500, l’arcivescovo Carlo Borromeo, poco dopo il Concilio di Trento, ingaggiò una dura lotta agli eccessi della festa, proponendo una nuova concezione dei riti collettivi.

Il Carnevale ambrosiano, nel suo storico e intrigante equilibrio tra serio e profano, è sempre particolare. Con quattro semplici domande vi spieghiamo perché.

Cosa significa “Carnevale” e perché a Milano è in formato XXL (anche in taglia XS)?
Il nome deriva dalla locuzione latina “carnelevare” «togliere la carne», perché in Quaresima cessava l’uso della carne. Tradizionalmente nella Arcidiocesi ambrosiana, che ha sede nel capoluogo regionale e comprende le province di Milano, Varese e Lecco, Monza-Brianza, parte di quella di Como e alcuni Comuni delle province di Bergamo e Pavia, la festa del Carnevale dura quattro giorni in più del normale. Per questo a Milano si parla di Carnevalone: un evento collettivo che dura due settimane e sei giorni (dalla prima delle sette domeniche che precedono la Settimana Santa e fino al sabato dopo il Mercoledì delle Ceneri che, nel rito romano, precede la prima domenica di Quaresima).
Ad alzare l’asticella, infatti, non è un motivo goliardico, bensì ecclesiastico. Innanzitutto, una diversa computazione dei giorni da dedicare al digiuno e alla penitenza. Il rito ambrosiano mantiene il computo antico che partiva dal Giovedì Santo, la Pasqua ebraica, Pesach, e giunge esattamente alla prima Domenica di Quaresima. Ma poiché nel rito ambrosiano vige il precetto di non digiunare nel giorno del Signore, la prima domenica di Quaresima è ancora lecito mangiare carme e festeggiare, sino alla prime luci dell’alba di lunedì. Per questo il primo giorno di Quaresima veniva chiamato “Carnevalino” o “Domenica grassa”, una festa che anticamente attirava nel capoluogo lombardo folle di forestieri provenienti dalle zone in cui era già in vigore il periodo di digiuno e penitenza. Infatti, il rito romano considera Pasqua la domenica di Risurrezione di Gesù e quindi fa partire il countodown dei 40 giorni dal Sabato Santo e, saltando le domeniche, fa iniziare il periodo di preparazione il Mercoledì delle Ceneri.
Dopo varie peripezie e scontri, la disputa fu comunque risolta da papa Gregorio XIII che impose anche a Milano la santificazione delle feste e l’osservanza della prima Domenica della Quaresima.
Tale spiegazione si sovrappone alla leggenda, che conosce versioni diverse, che lega al nome del vescovo Ambrogio la “dispensa” per il prolungamento del Carnevale a Milano. Si narra, infatti, che a causa di una sua assenza da Milano, il Santo avrebbe poi concesso di protrarre i festeggiamenti fin quasi all’inizio della Quaresima. Secondo fonti storiche, il Carnevalone sarebbe iniziato a causa di una grave pestilenza che aveva afflitto Milano proprio nel IV secolo. La situazione era tornata alla normalità proprio quando il periodo quaresimale era già iniziato, ma la gente aveva bisogno di svagarsi e non poteva intraprendere subito un altro periodo di digiuno e pestilenza. Da qui una dispensa speciale perpetua concessa dal Papa al vescovo Ambrogio affinché, solo a Milano e nei paesi limitrofi, si potesse festeggiare il Carnevale fino al sabato che precedeva la prima domenica di Quaresima, quando anche a Milano si teneva il rito delle Ceneri.


Quali sono le maschere tradizionali milanesi?

Questa è facile: Meneghin e la Sciura Cecca! Ma chi conosce l’origine del nome e, soprattutto del cognome?

Dietro al nome Meneghin, si nasconde la storia della società milanese fra Sei e Settecento: diminutivo di Domenico (dal latino dominicus), parrebbe derivare dall’usanza dei “mezzi signori” di assoldare un servitore solo di domenica, a differenza dei ricchi nobili che al contrario disponevano della servitù in ogni giorno della settimana. La tradizione lo descrive come un servo spiritoso e di buon senso, onesto e sempre indaffarato, e svolgeva anche le mansioni di maggiordomo e di acconciatore: Pecenna, infatti, era il suo cognome, che in milanese significa “pettine”.

Si fa risalire la sua “elezione” a simbolo di Milano all’insurrezione delle Cinque Giornate di Milano, nel 1848, rappresentante eroico della città e delle virtù civiche.
In realtà, fu il commediografo Carlo Maria Maggi ad inventare il personaggio alla fine del Seicento, ispirandosi alle buffe figure del teatro classico e rinascimentale. Le sue origini si mischiano con quella dello Zanni, personaggio del teatro comico dell’antica Roma, in seguito divenuto maschera della Commedia dell’arte. Noto anche come Zuan, nome molto diffuso nel contado veneto-lombardo da dove veniva la maggior parte dei servitori dei nobili e dei ricchi e dei mercanti, può essere considerato l’antenato di Arlecchino.

Fu poi Carlo Porta, poeta milanese, a rispolverare la buffa figura di Meneghino, riportandola in auge nel corso dell’Ottocento come personaggio chiave della satira patriottica e antiasburgica, rendendolo protagonista nel contesto storico e politico della Milano risorgimentale.

Accompagnato dalla moglie, un’altra maschera popolare milanese, la cosiddetta Sciura Cecca, diminutivo dialettale di Francesca. Lei indossa calze azzurre, un grembiule bianco sopra una sottana color granata a pallini bianchi, un corsetto di velluto nero con bianchi pizzi e bottoni d’oro. Sulle spalle porta uno scialle di tulle e in testa la cresta pieghettata alla brianzola. Un’immagine da cui la Lucia dei Promessi Sposi, figura che dall’Ottocento compare nelle sfilate carnevalesche. Meneghino invece lo si riconosce per il tricorno (il cappello con tre punte), la parrucca con un codino, la giacca lunga rossiccia e marrone o verde, i calzoni verdi in cima al ginocchio e in fondo le calze a righe rosse e bianche. Sotto la giacca indossa una camicia gialla con i bordi di pizzo e un fazzoletto intorno al collo. Le sue scarpe sono marroni con la fibbia davanti.

 

Chi sono gli altri protagonisti del Carnevalone?

Prima che Meneghin assurgesse a simbolo della città, si rideva delle avventure bonarie del Beltrame o “Beltramm de Gaggian“, primitiva maschera milanese. Servo un po’ tonto, buono e sempliciotto, da qui il detto: “vess de Gaggian” o “vess un Beltramm” per indicare una persona non troppo sveglia o anche “Beltramm de la Gippa“, per via dell’ampia casacca. Il suo costume consiste di una maschera marrone, berretto nero, giacca, pantaloni e mantello, scarpe in pelle, cintura gialla, le calze, il colletto e i polsini bianchi. Col passar del tempo a Beltrame si aggiunse una moglie, Beltramina, che spesso, grazie alla sua astuzia, aiutava il marito ad uscire da situazioni disperate. Dalla maschera marrone e quasi sempre vestito a lutto, tranne che per le scarpe in pelle e la cintura gialle, Beltrame fu popolarissimo fino alla fine del XVI secolo, quando venne progressivamente rimpiazzato dalla figura di Meneghino, molto più moderno.

Accanto alla coppia ufficiale vivevano altri personaggi carnevaleschi tradizionali: Lapoff, antenato di Pierrot, maschera biancovestita con un cappellaccio (capello a laa-pouff) floscio più che uno straccio, in assoluto la prima maschera del Teatro dell’arte milanese, i Bosin, cantastorie tipici delle campagne milanesi.

Nelle parate di Carnevale, le cronache riportano l’esibizione goliardica delle maschere di Leonardo da Vinci, Ludovico il Moro, figure usate per rappresentare in modo dissacrante il rovesciamento dei ruoli sociali e del potere, accanto a  menestrelli alfieri, araldi, cortigiani e cortigiane, giullari, menestrelligiocolieribuffoni, o figure caricaturali come “Bauscia de Milan“, gli “Asnon de Barlassina“, i  “Goss de Bergum“, gli scarriolanti.

 

Chiacchiere, tortelli e… quale altro simbolo del Carnevale è stata inventato a Milano?
Ben due le ghiottonerie che accompagnavano i Carnesciali, i grandi banchetti prima del digiuno: chiacchiere e tortelli. A forma di striscia irregolare e sinuosa, in alcune zone le prime vengono anche chiuse a nodo. Sono fatte con un impasto di farina che viene fritto e poi spolverato di zucchero a velo. A Milano sono simbolo del Carnevale. La tradizione delle chiacchiere probabilmente risale a quella delle frictilia, dolci fritti nel grasso di maiale che nell’antica Roma venivano preparati proprio durante il periodo dell’odierno Carnevale.
I nomi sono differenti da regione a regione: in Toscana si chiamano cenci, in Friuli grosoli, in Emilia sfrappole, nelle Marche frappe, in Piemonte bugie.  Ma non cambia, in sostanza, la ricetta base per la preparazione: farina, zucchero, burro, uova. Poi, a seconda di dove ci si trova, c’è chi aggiunge il vino bianco, il marsala, la grappa oppure la sambuca, ma queste sono varianti della ricetta più tradizionale. E poi lo zucchero a velo che non può mai mancare, indispensabile per le decorazioni.

Un’altra leccornia che caratterizza il Carnevale ambrosiano è rappresentata dai tortelli: si possono trovare vuoti, più leggeri, o ripieni di crema pasticcera, crema chantilly e crema al cioccolato. Il prodotto originale nasce proprio da un’antica tradizione milanese, seguendo una ricetta molto antica conosciuta e trasmessa nel tempo solo a pochissimi “eletti” di Milano. Si tratta di una frittella vuota, priva di mollica e quindi in grado di non assorbire tanto olio nella frittura.  È realizzato esclusivamente con ingredienti semplici e genuini: ci vuole farina, burro, acqua, sale, uova.

Meno noto, invece, è che proprio alle porte di Milano, a Crescenzago, furono inventati i coriandoli, nel 1875, per idea dell’imprenditore tessile Enrico Mangili. La geniale trovata, concepita nella Milano industriale di fine Ottocento, lungo il Naviglio della Martesana, ebbe poi grande fortuna ovunque nel mondo.